#5 Affinché cambi lato
«La honte doit changer de camp», il titolo dell’episodio viene da qui. Questa frase, che in italiano significa «La vergogna deve cambiare lato», l’avrete già sentita o vista su cartelli e murales: riguarda un caso recente di violenza sessuale che sta scuotendo la Francia. A pronunciarla è stata Gisèle Pelicot una donna di 72 anni che un giorno è stata convocata dalla polizia: suo marito, Dominique Pelicot, era stato fermato mentre filmava sotto la gonna di alcune donne e nel suo computer erano stati trovati centinaia di video di lei, drogata e priva di sensi, mentre veniva violentata nella sua camera da letto da uomini sconosciuti reclutati online.
Gisèle ha raccontato lo shock e l’orrore di vedersi in quei video senza riconoscersi, l’urlo di sua figlia nello scoprire l’accaduto. Ha raccontato dei suoi vuoti di memoria causati dai tranquillanti che il marito le ha somministrato di nascosto per 10 anni mentre lei temeva dipendessero da un Alzheimer, ha ripercorso l’incubo che ha spezzato una vita che lei credeva felice. Il processo è iniziato il 2 settembre e Gisèle ha chiesto che fosse aperto al pubblico. Si è sempre mostrata alle telecamere - sguardo risoluto e niente da nascondere - ha lasciato che la stampa riprendesse tutte le deposizioni e ha detto che a vergognarsi, appunto, dovrebbero essere gli uomini che compiono certi gesti, e non le vittime.
Potrebbe sembrare ovvio, ma persino Gisèle Pelicot, una vittima irreprensibile - una donna sposata con due figli che non desiderava altro che passare la vecchiaia con suo marito nella loro casa in Provenza - ha subito il consueto victim blaming, trovandosi a rispondere a domande su un suo possibile accordo con il marito .«Sono stata definita un'alcolizzata, una complice del signor Pelicot», ha detto in tribunale, «Nessuno di quegli uomini si è fatto delle domande prima di violentare una donna priva di sensi? Da quando un marito decide per sua moglie?».
Gisèle Pelicot, scegliendo che tutto emergesse e venisse raccontato apertamente, ha portato ogni azione alla luce del sole ed è diventata un simbolo. Ha detto di aver scelto di farlo per per sensibilizzare sul tema della sottomissione chimica (ovvero la violenza sessuale con somministrazione di farmaci o droghe all’insaputa della vittima) e «per tutte le donne che si trovano in situazioni simili».
La vergogna deve cambiare lato. Ricordate quando, nel primo episodio di questa newsletter, dicevo che il femminismo ti fa unire i puntini? Non avevo mai posto l’attenzione su quanto la vergogna sia radicata nell’esperienza femminile. Anche gli uomini si vergognano, ma per le donne risulta un’emozione pervasiva: il nostro corpo, come appariamo, il ciclo mestruale, la cellulite, il nostro peso, i peli da radere e strappare, “darla” o “non darla”, come ci vestiamo, come ci mostriamo sui social, come diventiamo o non diventiamo madri, come facciamo le madri, come invecchiamo e il fatto stesso che invecchiamo. Del resto il termine “svergognata” non mi risulta abbia un corrispettivo maschile altrettanto usato.
Freud diceva che «la vergogna è considerata una caratteristica femminile per eccellenza» e che «ha come scopo l’occultazione della deficienza genitale». Per lui, insomma, le donne tendono naturalmente a vergognarsi per via dell’invidia del pene: si vergognano perché manca loro qualcosa. Freud ha fatto anche cose buone, ma provo una soddisfazione particolare quando leggo le autrici femministe rimetterlo al suo posto. In questo caso Simone de Beauvoir nel Secondo Sesso scrive che il pene, «questa escrescenza, questo delicato stelo di pelle, non può che ispirare indifferenza e persino disgusto; l'invidia della ragazza, quando appare, è il risultato di una precedente valorizzazione della virilità. Freud lo dà per scontato quando invece dovrebbe spiegarlo». Touché: de Beauvoir sostiene che, più che di "deficienza genitale" dovremmo parlare di "deficienza sociale".
Non nasciamo vergognandoci per il nostro aspetto o per il nostro modo di comportarci, muoverci o correre (vi ricordate il video virale Like a girl?) è un qualcosa che arriva dopo, veicolato dalla società, dallo sguardo altrui, dai «Non fare la femminuccia» e «Fammi un sorriso». Durante l’adolescenza le ragazze iniziano a rendersi conto che essere femmine significa qualcosa, che quel qualcosa prevede un’infinità di regole da rispettare e spesso ti pone comunque in una posizione di svantaggio.
La vergogna è normativa: ci spinge a essere in un certo modo sulla base del confronto con l’altro o con un ideale. Non ci si vergogna tanto di quello che si fa, ma di quello che si è. La scintilla può essere un singolo fatto o un comportamento, ma poi contamina la percezione di noi e in questo differisce dal senso di colpa che rimane invece rivolto all’esterno, circoscritto a un comportamento specifico. «È il modo in cui la vergogna riempie il sé, diventando tutto ciò che il sé rappresenta, che è stato interpretato come la differenza tra vergogna e senso di colpa», scrive Sara Ahmed nel suo libro The Cultural Politics of Emotions, «Nella vergogna la cattiveria di un'azione si trasferisce su di me, mi sento cattiva, mi sembra che mi abbiano "beccata" o "scoperta" come cattiva».
È in questo che si inserisce la componente di genere, ci vergogniamo quando disattendiamo le aspettative imposte dal nostro genere. Solo che, come diverse autrici femministe hanno sottolineato, la vergogna femminile non risulta episodica ma onnipresente, vaga e costante, più una sensazione legata al proprio posto nel mondo che qualcosa di orientato a un aspetto specifico da modificare. Tramite una continua mortificazione del femminile, microagressioni e limitazioni, l’adolescenza ci insegna, con un processo osmotico, che in quanto ragazze per ottenere del potere o anche solo vivere tranquille, dobbiamo essere perfette e passive, curare il nostro aspetto, preoccuparci delle attenzioni dei ragazzi, non intimidire ma rispondere ai desideri di chi guarda. È un potere derivativo che si ottiene solo bilanciando bene le regole impossibili della femminilità: in palio ci sono l’amore romantico, il matrimonio e l'illusione che a quel punto lo status di donna degna ci verrà finalmente certificato. Non accade mai.
Questo bilanciamento risulta cruciale specialmente nella sessualità, pena, ancora una volta, la vergogna. È davvero difficile come ragazze adolescenti approcciarci al sesso con gioiosa curiosità: la vergogna incombe, siamo vulnerabili e socializzate a essere solo desiderate e mai desideranti. Non conoscere il nostro corpo, non sapere come funziona, doverlo chiedere a un altro, a un maschio, genera vergogna. Non rispettare le regole e vivere una sessualità attiva seguendo il proprio desiderio genera critiche e vergogna, mettere da parte noi stesse, ammiccare e poi cedere solo in quanto premi ambiti svilisce e genera vergogna di noi. La sensazione di non essere riuscite a proteggerci dalle violenze che subiamo genera vergogna, specie se poi ci chiedono come eravamo vestite.
Ma a cosa serve tutto questo? Tanta vergogna deve avere uno scopo e la risposta ce la fornisce Jude Ellison S. Doyle nel suo libro Il mostruoso femmiile:
«La facoltà maschile di disporre sessualmente delle donne è il fondamento del patriarcato», scrive, «Se un uomo cisgender non riesce a portare a letto una donna cisgender, non può metterla incinta; se non è sicuro della monogamia di quella donna, non può essere certo che il bambino sia suo. Ogni storia che raccontiamo riguardo alla sessualità, ogni punta di oscenità o vergogna che vi inseriamo, ha lo scopo di rinvigorire quella basilare dinamica di potere: gli uomini devono essere liberi di andare a letto con le donne, e le donne non devono essere libere di andare a letto con gli uomini. O con altre donne, o con chiunque altro, eccetto che con il fortunato che ha conquistato il diritto di metterla incinta».
Non tutti gli uomini stuprano, non tutti i giudici emettono sentenze in base alla condotta sessuale della vittima, eppure tanti uomini pensano, ad esempio, che sia normale preferire una ragazza che non è stata con tanti ragazzi (e l’ultimo dissing tra i rapper italiani lo conferma) come se questo aumentasse il suo valore come donna.
Nel suo libro Slut!: growing up with a bad reputation Leora Tanenbaum ha raccolto storie di ragazze che sono state definite “troie” per i motivi più disparati. Penso sia successo a ciascuna di noi: io sono stata tra quelle che l’hanno detto ad altre ragazze (purtroppo l’amicizia femminile funziona bene nel monitorare le regole patriarcali) e tra quelle a cui è stato detto. Una volta, da ragazzina, ero a un camposcuola con la parrocchia e nella stessa sera sono stata definita “non normale” dal mio ragazzo di allora perché non accontentavo tutte le sue pretese sessuali, e “puttanella” da una suora perché mi ero appartata con lui invece di andare a dormire.
C’era una verità? O ero sbagliata in ogni caso? Quello che, allora, veniva a mancare era lo spazio per capire cosa volessi veramente io in mezzo a tante regole ed etichette. Per me l’adolescenza ha significato questo: cimentarmi nell'impresa impossibile di essere una ragazza e basta, senza commettere passi falsi. Perché quello che succede alle ragazze che commettono passi falsi ce l’abbiamo davanti agli occhi sempre, come un monito.
La vergogna è pericolosa per chi la prova, un po’ come tutte le emozioni negative che si ripiegano su loro stesse e non trovano sfogo all’esterno (diversi studi dicono che sono più comuni nelle ragazze, mentre i ragazzi tendono a rivolgere le emozioni negative verso l’esterno adottando comportamenti antisociali e aggressivi). Quando ci si vergogna si vorrebbe sparire, diventa insopportabile esporsi alla vista degli altri e si vorrebbe fuggire da se stessi come se la propria identità bruciasse in modo insopportabile. «Nella vergogna», scrive Sara Ahmed, «devo espellere me stessa da me stessa». «Nella vergogna, chi la prova potrebbe non avere nessun posto dove andare».
Si può morire di vergogna? La risposta sta nel nome di Alice Schembri, di Tiziana Cantone, di Amanda Todd, donne che si sono tolte la vita dopo la diffusione di loro foto o video intimi. Todd ha raccontato la sua storia, di gogna violenta e profonda cattiveria, in un video su YouTube prima di uccidersi a 15 anni. Quando un uomo di 37 anni l’ha convinta a mandargli una foto del suo seno e poi l’ha ricattata minacciando di pubblicare la foto, era chiaro che lui sapeva che nessuna vergogna lo avrebbe colpito in quanto pedofilo adescatore di ragazzine e che, al contrario, quella foto gli forniva un potere proprio in virtù della vergogna che sarebbe ricaduta sulla sua vittima.
Succede anche in tribunale, succede alle stazioni di polizia, quando alle ragazze viene chiesto «Eri ubriaca?». «La forza», ha detto in un’intervista l’autrice Elena Ferrante, «dei piccoli e grandi Weinstein, che si trovino al centro del mondo o in posizioni marginali, è non soltanto quella di non provare alcuna vergogna di fronte alle diverse forme di stupro alle quali ci sottopongono, ma anche di farci credere, con un meccanismo ripugnante, che siamo noi a doverci vergognare».
Per questo negli anni sono nate le slut walks, marce contro la vergogna per reclamare una sessualità femminile libera, per questo le donne del #MeToo hanno cambiato il corso della storia. Il silenzio condanna alla solitudine, le voci e le storie di chi dice «Anch’io» sono antidoto alla vergogna.
«Il silenzio è l'oceano del non detto, dell'indicibile, del represso, del cancellato, dell'inascoltato», scrive l’autrice femminista Rebecca Solnit in un bellissimo pezzo sul Guardian, «Circonda le isole sparse formate da coloro a cui è permesso parlare, da ciò che può essere detto e da chi ascolta. [...] «“Siamo vulcani", ha osservato una volta Ursula Le Guin. "Quando noi donne offriamo la nostra esperienza come nostra verità, come verità umana, tutte le mappe cambiano. Ci sono nuove montagne". Le nuove voci, che sono vulcani sottomarini, eruttano in ciò che è stato scambiato per acque libere e nascono nuove isole; è un affare furioso e sorprendente. Il mondo cambia. Il silenzio è ciò che consente alle persone di soffrire senza ricorso, ciò che consente alle ipocrisie e alle bugie di crescere e prosperare, ai crimini di restare impuniti. [...] Le parole ci uniscono, e il silenzio ci separa, ci lascia privi dell'aiuto o della solidarietà o semplicemente della comunione che la parola può sollecitare o suscitare. Alcune specie di alberi diffondono sistemi di radici sotterranee che interconnettono i singoli tronchi e intrecciano gli alberi in un insieme più stabile che non può essere abbattuto così facilmente dal vento. Storie e conversazioni sono come quelle radici».
3 emozioni del mese
Gioia: sono molto felice perché a breve andrò a New York qualche giorno. Tra le altre cose vorrei andare al Brooklyn Museum a vedere The Dinner Party di Judy Chicago, un’opera d’arte che si collega anche al tema di questo episodio.
Sconforto: trovo veramente sconfortante il ddl Valditara sulla scuola che mira a punire e rafforzare la gerarchia scolastica. In questo pezzo su The Vision avevo parlato invece della pedagogia femminista.
Calma: mi sono regalata una candela profumata di quelle con lo stoppino in legno che brucia crepitando. Sembra di avere il camino acceso, mi pare il miglior acquisto di questo autunno.