Ad agosto, quando ero ancora in vacanza, un’amica mi ha chiesto se, nel prendermi una pausa, ero riuscita a ritrovare dei pezzi di me che erano andati persi durante l’anno. Mi è sembrata una domanda interessante e mi ha ricordato una frase letta su Substack della pittrice Georgia O'Keeffe che dice «I have done nothing all summer but wait for myself to be myself again». Se a furia di aspettare funziona, penso si possa considerare un’estate ben riuscita.
Comunque, ci ho messo un po’ a rispondere alla mia amica e poi le ho detto: «Ho ritrovato l’immaginazione». Da sempre, che io ricordi, il mio bisogno di passare del tempo a immaginare e fantasticare senza vincoli mal si combina con gli impegni, le scadenze, il segnale dell’iPhone che ti dice di andare a dormire. È chiaro che il capitalismo contempla l’immaginazione solo se già indirizzata a un fine produttivo, ma a me capita che, a forza di incanalarla in progetti e obiettivi ben delineati (spesso da altri) e non più libera di spaziare in luoghi improbabili, mi si spenga nella mente, si ammali e perda vigore. Anche quest’anno, con tra le mani finalmente più romanzi che saggi, ho avuto la fortuna di ritrovarla davanti al mare.
L’immaginazione non è un’emozione. In psicologia è «La facoltà di produrre immagini sensibili, connessa ai sensi ma non limitata o condizionata da essi, distinta dall’intelletto e dall’opinione». Eppure è di questo che vorrei parlare. Settembre mi ha colta impreparata come sempre (come nelle foto del primo giorno di scuola da piccola, con i capelli bruciati dal sole e il corpo impacciato, temporaneamente dimentico di come stare nei vestiti), quindi credo che questo episodio assomiglierà più del solito a un flusso di coscienza. Poi si riprende struttura: vorrei iniziare a usare questo spazio anche per collaborare con altre persone e inserire una versione audio per chi preferisce ascoltare che leggere. Mi piace pensare, però, di chiudere un cerchio, un primo ciclo di 4 newsletter che in qualche modo mi pare siano collegate all'importanza politica di guardare avanti: curiosità (la mia preferita), speranza (in contrasto con la nostalgia di settembre), memoria (perché per andare avanti ci serve aiuto dal passato) e immaginazione.
Un po’ come l’emotività, l’immaginazione viene tradizionalmente ben distinta dalla ragione e, di conseguenza, è posta su un piano valoriale inferiore nel pensiero occidentale. Vale lo stesso discorso fatto per la curiosità, non è che l’immaginazione venga sempre sminuita, ma succede quando è lasciata troppo libera, senza i vincoli della ragione. Di solito, poi, succede con le ragazze: troppo troppo fantasiose, con la testa tra le nuvole, sognatrici a occhi aperti che non sanno stare con i piedi per terra.
Mi ha fatto piacere, quindi, scoprire che Mary Wollstonecraft, tra le più famose femministe ante litteram, è stata una grande sostenitrice del potere dell’immaginazione. Per lei provare emozioni e immaginare era il modo migliore per stimolare la mente: nel 1787 scriveva che se le ragazze avevano, per certi versi, «meno giudizio dei ragazzi», era perché venivano tenute in casa e la loro mente non aveva elementi per immaginare. Legava l’immaginazione anche alla ricerca di indipendenza che per lei è stata un rivoluzionario rifiuto del mondo patriarcale in cui era inserita. Mi lascia sempre incredula pensare al suo Rivendicazione dei diritti della donna, scritto nel 1792 e considerato uno dei primi testi di filosofia femminista della storia. Avrei voluto essere nella sua mente e assistere alla nascita delle prime immagini di un mondo che, fino a quel momento, quasi nessuno aveva osato immaginare, un mondo con pari diritti umani in un’epoca in cui si pensava che la struttura stessa del corpo femminile impedisse alle donne di essere più di un mero possesso maschile. Tutta la storia delle lotte femministe procede, in effetti, in questo senso: provando a immaginare oltre gli schemi patriarcali e il mondo che conosciamo, a volte senza strumenti, a volte persino senza le parole giuste per dirlo.
C’è un libro, a questo proposito, che rende chiaramente l’idea: si intitola Donne che parlano, è stato scritto da Miriam Toews e l’anno scorso ne è stato tratto un film, visibile su Prime Video. Per Toews l'opera è «Un atto di immaginazione femminile» e si ispira a una storia vera, un agghiacciante caso avvenuto a Manitoba, una colonia mennonita della Bolivia dove il tempo sembra essersi fermato al 1500. Tra il 2005 e il 2009 una decina di uomini della colonia hanno violentato, notte dopo notte, centinaia di donne di Manitoba (donne dai 3 ai 65 anni) sedandole a loro insaputa con uno spray usato per il bestiame. Le donne si svegliavano confuse e doloranti con i segni delle violenze sul corpo, senza ricordare nulla e senza capire. Towes, romanzando, nel libro ne parla così: «All'inizio Peters (il pastore capo della colonia, nda) ha detto a Mina che quello stupro era opera di Satana, che era un castigo divino, che Dio stava punendo le donne per i loro peccati. Poi le ha detto che quello stupro se lo stava inventando. Ha ripetuto le parole 'sfrenata immaginazione femminile', inserendo forzatamente una pausa dopo ogni parola a formare tre brevi frasi. Mina ha chiesto quale dei due: Satana o l'immaginazione».
Nel 2009, finalmente, gli uomini sono stati scoperti e c’è stato un processo. Le donne hanno trovato il coraggio di parlare, nonostante la paura delle conseguenze sul piano sociale e religioso e le enormi difficoltà a esprimersi. Molte di loro, infatti, non conoscevano nemmeno i termini esatti per indicare certe parti del corpo o per affrontare argomenti che la loro comunità considera tabù.
Toews, nel suo romanzo, parte da qui, dal momento in cui gli uomini sono alla centrale di polizia ma presto torneranno in attesa del processo. In quel lasso di tempo, nel libro le donne si chiedono come comportarsi: non fare niente, restare e combattere o andarsene? Ne nasce un dibattito dove anche ciò che per noi risulterebbe scontato - la base della tutela di sé, della giustizia di fronte a certe atrocità - non lo è mai. Loro sono analfabete e la colonia è l’unica casa che hanno, conoscono solo i principi della religione che gli uomini hanno impartito loro e vivono sottomesse, ragionano attraverso metafore agricole e riferimenti ai loro animali e non hanno mai avuto alcun potere, nemmeno di decidere per loro stesse.
«Siamo donne senza voce», dice una delle protagoniste, «Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna (così viene chiamata la colonia nel libro, nda) perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni - per forza che siamo sognatrici».
Leggere certe pagine è straziante. Mentre parlano in segreto in un granaio, fingendo di tessere una trapunta, è impossibile ignorare la presenza dei loro corpi: ci sono i lividi, le gravidanze, le malattie veneree a ricordarci cosa è successo e ci sono i capelli da intrecciare e le mani da tenere. Le loro menti si aggirano nel perimetro in cui a lungo sono state costrette senza risposte facili: si chiedono se potranno ambire all Regno dei Cieli anche senza perdonare i loro fratelli e mariti per quello che hanno fatto, si domandano se lasciare la colonia va contro il volere di Dio, se devono portare con sé anche i figli maschi (a che età un uomo inizia a diventare pericoloso?), se riusciranno a portare via i loro cavalli preferiti. Litigano, fanno i conti con la rabbia e il dolore, cercano di tenere insieme le posizioni di tutte. La scrittura è frammentata, a singhiozzo, si percepisce la fatica del loro pensiero che annaspa cercando un appiglio, interrotto continuamente da bambini che piangono e incombenze domestiche. Tuttavia, lentamente, dei punti vengono fissati: la sicurezza delle figlie, la libertà di poter pensare, la pace delle loro anime, la possibilità che ciò che vuole Dio non passi attraverso la bocca degli uomini che hanno fatto loro del male.
L’«atto di immaginazione femminile» è questo sforzo collettivo che le spinge a chiedersi se partire, pur non avendo mai visto una mappa, senza conoscere niente del mondo, senza nessuna risorsa. Ma è un atto di immaginazione femminile anche quello di Toews, che ha vissuto lei stessa fino a 18 anni in una colonia mennonita canadese da cui poi è fuggita, e che, immaginando le donne che parlano e prendono decisioni, costruisce per loro un futuro meno buio rispetto a come sono andate le cose in realtà.
Immaginare è un privilegio: richiede tempo, energie mentali, una certa tranquillità, una certa istruzione, risorse e, preferibilmente, anche qualcuno con cui parlare. Come fai a immaginare se non hai cibo a sufficienza, se sei piena di rabbia o se hai tutto il peso dei figli a cui badare e mai un attimo per te stessa? Serve, almeno, una stanza tutta per te. Eppure le donne l’hanno fatto e lo fanno comunque. L’hanno fatto e lo fanno fantasticando, scrivendo libri o creando utopie politiche (come quelle di Margaret Atwood, di Ursula Le Guin o Octavia Butler) e l’hanno fatto e lo fanno con la pratica femminista (vi ho già parlato di Fare femminismo di Giulia Siviero). Continuano a farlo oggi immaginando nuove rivoluzionarie soluzioni per la società, ed è questa la vera essenza del femminismo o, per lo meno, quella che preferisco: la voglia di pensare ancora e ancora fuori dagli schemi dati per buoni, di sconvolgere e destabilizzarsi, di ipotizzare l’impensabile, di mettersi in viaggio senza mappa.
Succede di continuo, negli ambiti più diversi: Michaela Stark (che ho intervistato qualche giorno fa per Cosmopolitan), con le sue creazioni artistiche e sartoriali, modella il corpo dando vita a creature che sovvertono ogni regola estetica femminile. Angela Davis, dopo una vita dedicata all’attivismo per i diritti civili, si domanda se e come abolire il sistema carcerario. Quando si parla di persone trans nello sport (e quest’estate se n’è parlato parecchio) il transfemminismo chiede di andare oltre ciò che si prende per immutabile e di mettere prima l’inclusione: la sociologa Alessia Tuselli in questo bellissimo podcast suggerisce che dovremmo guardare oltre le categorie “uomo” “donna” nello sport o almeno provare a fare un esercizio di immaginazione e trovare soluzioni più creative a un problema che esiste e che stiamo gestendo male. Perché non dovremmo cominciare almeno a pensarci?
Chiudo (lo so, stavolta è lunghissima!) con questo brano tratto da Nuove professioni per le donne, dove Virginia Woolf descrive una scrittrice alle prese con la sua immaginazione. Mi sembra appropriato:
«Me la immagino proprio in un atteggiamento di contemplazione, come fosse una pescatrice, seduta in riva al lago con la canna da pesca tesa sopra l'acqua. Sì, è così che la vedo. Non sta pensando; non sta ragionando; non sta costruendo una trama; lascia che l'immaginazione sprofondi nei meandri della sua coscienza mentre lei è seduta lì, aggrappata a un filo sottile ma alquanto necessario di raziocinio. All'improvviso un violento strattone; sente il filo che le corre tra le mani. L'immaginazione è schizzata via; è sprofondata; si è inabissata chissà dove... nel pozzo nero dell'esperienza straordinaria.
La ragione allora deve intimare: “Fermati!”. La romanziera deve riavvolgere la lenza e riportare l'immaginazione in superficie. L'immaginazione riemerge furibonda.
“Santo cielo!”, grida, “come osi interferire, come osi tirarmi via con la tua ridicola lenza da pesca?”. E io - cioè la ragione - devo rispondere: “Mia cara, stavi andando troppo lontano. Gli uomini ne sarebbero scioccati”. “Calmati”, dico, mentre quella si adagia tutta ansimante sulla riva, ansimante di rabbia e risentimento. “Dobbiamo solo aspettare una cinquantina di anni. Tra cinquant'anni sarò in grado di usare tutta l'assurda conoscenza che saprai darmi. Ma non ora”. "Sai", le dico, cercando di tenerla a bada, “non posso sfruttare quello che mi dici - ad esempio sul corpo delle donne, sulle loro passioni, eccetera, perché esistono convenzioni ancora troppo salde. Se dovessi superare le convenzioni, mi servirebbe il coraggio di un eroe, e io non sono un eroe. Dubito che uno scrittore possa essere un eroe. Dubito che un eroe possa essere uno scrittore”. “Benissimo”, dice l'immaginazione, rinfilandosi sottane e camicette, “attenderemo allora. Attenderemo cinquant'anni. Ma mi sembra un peccato”».
3 emozioni del mese
Ansia: nell’ultimo periodo sto convivendo con una nuova forma d’ansia, quella del voglio o non voglio fare figli. Ho scoperto che è molto comune e ne ho scritto qui.
Rabbia: mi sono arrabbiata sulla questione “ideologia gender” e ho scritto questo pezzo per Elle.
Euforia: dopo gli degli MTV Video Music Awards non so perché mi è presa l’ossessione per questa canzone di Chappell Roan, la sto ascoltando a ripetizione come a 15 anni.
Il brano di Virginia Woolf è davvero meraviglioso, grazie per averlo condiviso!!