Tempo fa, quando con mia nonna ci scambiavamo delle email («Come stai? Spero un pò meglio», «Grazie del ricordo e delle foto», «Sei brava e ti so molto occupata», «Un bacio»), le avevo mandato la traduzione di un brano di Sara Ahmed. Iniziava con questa frase: «Per quanto l'esperienza del dolore possa essere solitaria, non è mai privata». E poi poneva delle domande: «Che dire del dolore degli altri?», «Visto che non abitiamo il corpo altrui, questo significa che il loro dolore non ha niente a che fare con noi?». Continuava con il racconto di quando Ahmed, com’è successo a mia nonna da giovane, si è presa cura di sua madre malata, si è trovata a vivere «con il dolore» di sua madre, con l’impotenza, l’amore e l’attesa di chi assiste.
«A volte le sue suppliche richiedevano che io facessi semplicemente da testimone, che riconoscessi il suo dolore», scrive l’autrice, «Tramite tale testimonianza, potevo conferire al suo dolore lo status di evento, di avvenimento nel mondo, piuttosto che restasse solo il “qualcosa" che sentiva, il "qualcosa" che andava e veniva con lei. Attraverso la testimonianza, potevo dare al suo dolore una vita al di fuori dei confini fragili del suo corpo vulnerabile e profondamente amato. Ma il suo dolore, nonostante fosse l'evento che ci ha tenute unite (ricordo le notti tranquille a guardare vecchi film), rimaneva avvolto nel mistero. Vivevo con ciò che era, per me, di fatto impossibile da vivere».

Nel corso della storia c’è sempre stato un filo sottile a congiungere le donne al dolore, dolore provato o testimoniato. Questo vale sicuramente per il dolore a livello emotivo. Nell’antica Roma le donne venivano pagate per piangere e gridare di dolore durante i rituali funebri, nell’arte, nei libri, nei film e nei telefilm, persino sui social l’immagine della donna che piange, la Madonna addolorata o l’estetica della ragazza bella e tormentata con il mascara colato ci è familiare come parte di noi. Se, come donne, mostriamo tristezza, e lo facciamo secondo certi codici, siamo, nel bene e nel male nel nostro regno, ci inseriamo in una genealogia femminile che passa per Sylvia Plath attraverso le casalinghe degli anni 50 con gli antidepressivi nel mobiletto del bagno, fino a Sofia Coppola e Lana Del Rey.
Che dire, invece, del dolore fisico di cui parla Ahmed? Gli studi ci mostrano che un legame esiste. Secondo la ricerca Sex bias in pain management decisions, le pazienti di sesso femminile hanno meno probabilità di ricevere farmaci antidolorifici rispetto agli uomini, hanno una probabilità del 10% inferiore che il loro livello di dolore venga registrato dagli infermieri al momento del triage e trascorrono in media 30 minuti in più in attesa al Pronto Soccorso. Si chiama “gender pain gap” e ho deciso di parlarne con Alessandra Vescio, giornalista e autrice del libro La salute è un diritto di genere per cercare di indagare questo legame - a volte impalpabile, a volte estremamente tangibile, a volte contraddittorio - che esiste tra donne e dolore, sia a livello emotivo che a livello fisico e nell'intrecciarsi delle due dimensioni.
Che cosa si intende per gender pain gap?
«Il gender pain gap è quella differenza con cui accogliamo il dolore delle persone sulla base del genere di appartenenza di chi lo manifesta. Quando una donna manifesta dolore, tendenzialmente accogliamo e ascoltiamo la sua testimonianza con una certa diffidenza o comunque con una serie di pregiudizi. La sua testimonianza viene tendenzialmente sminuita, viene smontata o del tutto non creduta. Quando invece un uomo manifesta dolore, in media tendiamo ad accogliere la sua testimonianza come vera, come reale e come possibile. Questo succede nella popolazione generale: con le persone care, con amici e amiche, con i nostri familiari ma anche in ambito medico e sanitario che è il settore in cui il gender pay gap è stato soprattutto studiato e dimostrato. Questo ovviamente ha delle conseguenze che nel settore medico e sanitario sono particolarmente problematiche».

Da cosa deriva?
«Non deriva certamente dalla cattiveria o dalla meschinità del singolo medico, della singola medica o del professionista sanitario che decide di non credere al dolore delle donne. Deriva dal fatto che viviamo in una società che premia gli stereotipi di genere. La nostra è una cultura patriarcale in cui associamo determinate caratteristiche in base al genere di appartenenza. In questo contesto in cui parliamo dolore fisico, pensiamo le donne come più volubili, emotive, vittime delle loro emozioni, incostanti o anche semplicemente più capaci di manifestare le loro emozioni. Dall'altro lato, invece, educhiamo i bambini e i ragazzi a non mostrare le loro emozioni e fragilità, a non piangere, a non parlare di tutto il loro lato emotivo. Dunque, sulla base di questo, quando una donna manifesta dolore, immediatamente il suo dolore e la sua testimonianza viene ridimensionata».
Che conseguenze ha tutto questo?
«Per le donne può voler dire rincorrere una diagnosi per anni, rincorrere una risposta ai loro dolori, ai loro disturbi e problemi. Spesso, poi, il loro dolore viene ricondotto a dei disturbi di salute mentale che magari non c'entrano nulla. Ci sono, però, anche delle conseguenze per gli uomini: proprio perché vivono in una società patriarcale che li spinge a non mostrarsi vulnerabili, tendono a non chiedere aiuto quando ne hanno bisogno. Tendenzialmente diffidano anche delle terapie psicologiche, oppure non fanno prevenzione o ancora assumono tutta una serie di comportamenti, di abitudini e di atteggiamenti che, soprattutto quando soffrono di dolore e di dolore cronico, possono aggravare la salute. Per esempio, quando un uomo si ritrova a fare esperienza di dolore e di dolore cronico, si isola, non chiede aiuto oppure ha degli atteggiamenti più aggressivi, o ancora fa uso e abuso di sostanze e di alcolici».
Forse il primo momento in cui, come donne, ci accorgiamo di questo legame con il dolore è all’arrivo della prima mestruazione…
«La donna attraversa una serie di fasi nella vita in cui il dolore viene normalizzato e la comparsa delle mestruazioni, nel momento del menarca, è una delle primissime volte in cui una persona a cui è stato assegnato il sesso femminile alla nascita incontra e si rapporta al dolore in quanto persona a cui è stato assegnato il sesso femminile alla nascita. L’arrivo del ciclo mestruale condiziona moltissimo la vita delle persone. Cambia la percezione di sé, soprattutto se una bambina o una ragazza arriva al menarca senza gli strumenti giusti per comprendere cosa sta succedendo al proprio corpo e i cambiamenti che stanno avvenendo e avverranno. Dall'altro lato, però, cambia anche la percezione che gli altri hanno della persona con le mestruazioni sulla base di stereotipi che ancora esistono. Una bambina o una ragazza che ha le mestruazioni per la prima volta viene catapultata in un mondo in cui, da quel momento in poi, verrà giudicata più emotiva, poco lucida, volubile, perché “ha le sue cose”.
Infine cambia anche il concetto del dolore, il menarca e le prime mestruazioni rappresentano una delle primissime volte in cui alle ragazze viene detto che devono abituarsi al dolore, che il dolore è normale, che devono sopportare, che sono fatte per sopportare quel dolore e soprattutto che è meglio che lo facciano in silenzio e che non si lamentino».
Questa idea di dolore da sopportare cosa comporta?
«Da un lato è difficile riconoscere l'intensità di certi sintomi quando la bambina o la ragazza entra in una fase completamente nuova, si ritrova a fare esperienza di fastidi e sensazioni molto diverse rispetto a quelle che ha provato fino a quel momento. Sappiamo però che, dal punto di vista sanitario, il dolore è un campanello d'allarme di qualcosa che non va o che comunque merita di essere indagato. Sarebbe essenziale dare più spazio alle bambine e alle ragazze per poter imparare a conoscersi sia dal punto di vista fisico che emotivo, per poter manifestare liberamente il proprio dolore e avere qualcuno accanto a sé con cui farlo. Sarebbe importante ed essenziale che si desse loro la possibilità di imparare a fidarsi di loro stesse, delle proprie sensazioni sapendo che queste verranno prese sul serio».
Che ruolo ha questa normalizzazione del dolore rispetto alle patologie croniche femminili, tipo l'endometriosi e la vulvodinia?
«Normalizzando il dolore si sviluppa una difficoltà nel capire se c'è effettivamente un problema e quindi chiedere aiuto. Molte donne e ragazze, prima di chiedere supporto e prima di essere ascoltate e credute, aspettano degli anni. Pensiamo alle ragazze e alle donne che hanno dei sintomi di endometriosi o di vulvodinia o di neuropatia del pudendo o anche di fibromialgia che è una sindrome dolorosa cronica molto più diffusa tra le donne e che spesso viene ricondotta a disturbi di salute mentale. Sono tutte patologie che hanno dei ritardi diagnostici molto elevati.
Secondo il Ministero della Salute, l'endometriosi ha un ritardo diagnostico in Italia di circa sette anni. Per la vulvodinia, secondo diverse ricerche, parliamo di un ritardo che va dai quattro ai cinque anni. E questo non perché siano delle patologie rare, anzi sono anche piuttosto diffuse. Il problema è che, da un lato, sono patologie che riguardano le donne, e il corpo delle donne è stato a lungo sottorappresentato nello studio della medicina. Dall'altro lato c’è il contesto culturale in cui, appunto, il dolore delle donne non viene preso sul serio. L'endometriosi per tanto tempo è stata definita come la malattia delle donne in carriera, cioè le donne che anziché pensare a sposarsi e avere dei figli, avevano seguito le loro ambizioni lavorative».

Il punto di massima congiunzione tra donne e dolore è il parto. «Partorirai con dolore» è la punizione per Eva quando viene cacciata dal Paradiso Terrestre. Che legame c'è tra parto e dolore?
«Il parto è una delle esperienze più dolorose che una persona possa vivere ed è anche un dolore inspiegato. È inspiegato perché, come sottolinea la giornalista Roberta Fulci nel suo libro Il male detto. Che cosa chiamiamo dolore, normalmente in ambito medico il dolore è considerato un campanello d'allarme. Il parto invece non è un problema, non è una patologia ma è comunque doloroso. Oggi sempre di più le donne si sentono libere di parlare di questa esperienza che è talmente dolorosa che si dice che il cervello delle donne si sia evoluto in maniera tale da essere in grado di mettere da parte l'esperienza traumatica del parto come forma di sopravvivenza. Non sappiamo se sia effettivamente così, sappiamo che è una esperienza abbastanza intensa e questo a prescindere da situazioni di violenza ostetrica».
Cosa si intende per violenza ostetrica?
«Per violenza ostetrica intendiamo tutti quei maltrattamenti, quegli abusi fisici e verbali in cui rientra anche la negligenza della cura o dell'assistenza, che possono avvenire tanto in sala parto quanto durante la gravidanza o nel periodo dopo il parto. Sono molto più comuni di quello che possiamo immaginare. Me ne rendo conto durante le presentazioni del libro: ci sono tantissime donne che, quando sentono parlare di violenza ostetrica, vogliono condividere le loro testimonianze, le storie che hanno vissuto o che hanno sentito da altre persone a loro vicine. Soprattutto in Italia, poi, a livello istituzionale si fa ancora molta fatica a inquadrare e riconoscere questo problema».
Online è molto facile trovare testimonianze di donne che, ad esempio, sono state criticate per aver urlato durante il parto o donne a cui sono stati dati i punti dopo aver partorito senza anestesia perché “tanto dopo il parto cosa vuoi che sia”. C’è un podcast che ne parla approfonditamente, si intitola A gambe larghe. Cosa c’è alla base di tutto questo?
«La violenza ostetrica si inserisce in un contesto culturale in cui il dolore durante il parto è considerato normale e il chiedere di avere del supporto diventa quasi un'ammissione di debolezza. Così quando una persona che sta partorendo lamenta dolore, anziché prenderla sul serio e agire, si mette in discussione la sua persona, le si dice “forse se non riesci a sopportare il dolore la colpa è la tua perché non riesci a gestire questa situazione”. C’è una colpevolizzazione della donna che si ritrova già in una condizione di estrema vulnerabilità. E poi c’è una romanticizzazione della maternità, non soltanto durante il parto ma anche dopo.
Quando una madre manifesta stanchezza o dice di essere affaticata e lo dice con una rabbia e una tristezza di diverso grado di intensità, spesso genera sguardi negativi, giudizi negativi. Viene in molti contesti considerata una madre inadeguata. E la conseguenza principale è che le donne in difficoltà non chiedono aiuto quando ne hanno bisogno. C'è ancora un enorme stigma nei confronti della depressione perinatale, per cui tante donne che sviluppano dei sintomi da depressione perinatale, preferiscono non parlare del loro dolore perché temono di essere giudicate e magari temono di vedersi portare via i figli».
Secondo te, quindi, qual è il nesso tra il binomio donne-dolore a livello emotivo e il binomio donne-dolore a livello fisico? A volte, sono proprio le esternazioni delle donne in contesti medici ad essere considerate esagerate e eccessivamente emotive…
«Penso che ci sia da sempre un legame tra disturbo fisico, emotivo e genere femminile. Il dolore fisico delle donne viene spesso ricondotto a disturbi di salute mentale. Alle donne vengono, per esempio, prescritti molti più psicofarmaci, a prescindere dal fatto che ne abbiano bisogno o meno o dal fatto che sia stato effettivamente indagato quel dolore. Pensiamo che, fino a poco tempo fa, qualunque forma di disturbo, qualunque forma di patologia conosciuta o sconosciuta che riguardava le donne, veniva ricondotta sotto l'etichetta dell'isteria. L’ isteria voleva dire tutto e niente. Per molto tempo ha raccolto sotto di sé tutti i sintomi che riguardavano l'apparato riproduttivo femminile. Poi, nel XVII secolo, si è arrivati a considerare isteria tutto quello che poteva avere un'origine nervosa per cui alle donne venivano somministrate cure o trattamenti per “calmare i nervi”. Questo avveniva in caso di sintomi legati alla perimenopausa, ad esempio, e quindi disturbi del sonno, palpitazioni, vampate di calore, ma anche in caso di disturbi d'ansia o depressivi, o disturbi neurologici. Tutto quello che non era stato ancora indagato o non si voleva indagare e che riguardava il genere femminile veniva ricondotto all’isteria».
Capita ancora che venga detto a una donna che è isterica quando esce dall'immaginario comune e manifesta delle emozioni che sono considerate inadeguate, come la rabbia o una forte sofferenza, quando non è più a donna mansueta che soffre in silenzio, che si mette da parte e non manifesta mai nessuna emozione negativa. Oggi magari non usiamo più la parola “isterica”, ma parliamo di donne ormonali, di donne vittime delle loro emozioni e degli ormoni. Diamo nomi diversi a fenomeni e pregiudizi che invece sono vecchissimi».
3 emozioni del mese
Fiducia in noi: ho letto Maestre di Carolina Capria e l’ho intervistata qui per Cosmopolitan. È un libro che ci aiuta a provare, come mi ha detto parlando di Goliarda Sapienza, a «darci autorevolezza da sole».
Frustrazione: non ho idea di come gestire la frustrazione, specie quando piove ininterrottamente, ma guardare queste candele dipinte (non penso avrei mai il coraggio di accenderle) forse aiuta.
Angoscia: l’ho provata l’altro giorno leggendo questo report delle Nazioni Unite che fa il punto sulla situazione delle ragazze nel mondo. 650 milioni di donne e ragazze viventi hanno subito violenza sessuale durante l’infanzia. Si stima che nel 2025 nel mondo partoriranno 325.000 bambine tra i 10 e i 14 anni.