«Mi amo troppo per stare con chiunque» è una frase che Sara Campanella, ventideuenne uccisa a Messina lo scorso 31 marzo, aveva scritto sui social. Stefano Argentino, 27 anni, ha confessato di averla accoltellata per strada, all’uscita dall’Università: da tempo la seguiva, le mandava messaggi, non accettava di venire rifiutato. La frase trovata sui social è comparsa su cartelloni, palloncini e poster mentre migliaia di persone sono scese per le strade a ricordare Sara.
Ho pensato spesso a lei che la trascriveva, ma anche alle frasi che pubblichiamo di getto e che poi potrebbero diventare quelle con cui saremo ricordate ai nostri funerali. Ho pensato anche alla frase in sé, soprattutto alla prima parte, «Mi amo troppo per», e a come tenda a sembrarci quasi un modo di dire perché, in molti casi, non abbiano la minima idea di come fare ad amarci e, nel provare a capirlo, rischiamo di perdere la vita.

Le donne dubitano di loro stesse. Anche gli uomini lo fanno, ma gli studi ci dicono che esiste un divario di fiducia. Parlarne ci mette in una posizione complicata, si inizia quasi con rabbia chiedendosi perché le cose stiano così e si finisce a dirsi che è meglio ricominciare a fingere perché parlare di insicurezza collettiva suona come un’ammissione di debolezza. Secondo una ricerca svolta chiedendo a più di 1.300 ragazze tra gli 8 e i 18 anni di valutare la sicurezza in loro stesse, fino ai 12 anni, non c'è quasi differenza tra ragazzi e ragazze. Poi qualcosa cambia e una ragazzina di 14 anni si valuta molto meno sicura di sé rispetto alla media dei maschi coetanei. «Dalle ragazzine di 12 anni sentivamo frasi come "Faccio amicizia molto facilmente", "Adoro scrivere poesie e non mi interessa se gli altri pensano che sia un bene o un male"», raccontano le ricercatrici sull’Atlantic, «Dopo un anno o più di adolescenza, dicevano "Sento che tutti sono così intelligenti e carini e io sono solo una ragazza brutta senza amici", o "Sento che se mi mostrassi per come sono, nessuno mi vorrebbe"». Col tempo le cose non vanno necessariamente migliorando: le donne tendono a fare domanda per una promozione solo quando si ritengono qualificate al 100%, agli uomini basta il 60% (ne avevo già parlato nella puntata dedicata all’ambizione).
«Io sono cresciuta dando per scontato che tutto il potere fosse al di fuori di me, mentre gli uomini sono stati educati a vedere il potere quasi esclusivamente dentro di sé», scrive Gloria Steinem nel suo libro Autostima. La rivoluzione parte da te, «Proprio come l’illusione di non avere alcun controllo era nemica della mia autostima, l’illusione del controllo totale era nemica della loro. Per entrambi, l'obiettivo dovrebbe essere un punto di equilibrio intermedio: un continuo andare e venire tra il sé e gli altri, tra unicità e unità, tra il pianificato e l’accidentale, tra il nostro io interiore e l'universo».
La mancanza di amore e stima di sé può avere esiti distruttivi. Se per gli uomini rischia di declinarsi in eccessi d’ira e nell'eliminazione violenta di tutto ciò che li fa sentire rifiutati (avete presente il ragazzino di Adolescence quando dice alla psicologa «Do you like me?»), nelle donne spesso si modella in autodistruzione, autosabotaggio, annichilimento di sé: ci remiamo contro e aspettiamo che ci dicano “brave” per sentirci validate. «Non è che l’autostima sia tutto», scrive Steinem, «solo che senza di essa non può esserci nulla». E non è nemmeno solo una questione di autostima, ma forse più il bisogno, per poter sopravvivere, di una sorta di alleanza intima che passi attraverso un senso di sé che non vacilli e un’autonarrazione interna che non ci demolisca a ogni passo.
Come fai ad esistere se continuamente ti metti in discussione? Nelle giornate nere so che la mia mente mi dirà che ho fatto solo scelte sbagliate, mi farà tornare indietro a contare gli anni che potrei aver sprecato, mi spingerà a misurare i miei fallimenti con i traguardi degli altri, a sondare i parametri sfasati e aleatori del successo ai tempi dei social dove la mediocrità è una condanna e l’eccezionalità una performance. È uno schema che conosco e che so gestire, ma tengo traccia della fatica e del tempo che mi costa e mi chiedo a chi o a che cosa metterlo in conto. «Serve una forma di fede laica per riuscire, finalmente, a esprimersi con la propria voce» scrive Carolina Bandinelli nei ringraziamenti del suo libro La più brava, e ha ragione. Lottare contro la sindrome dell’impostore, liberarsi del bisogno di compiacere, sforzarsi per vincere la paura del giudizio, toglie energia a tante donne a cui è stato insegnato che sminuirsi è, in qualche modo contorto, una virtù.
Da piccole a un certo punto abbiamo desiderato non essere femmine. Poi, che un uomo ci scegliesse: se il potere ci sembra al di fuori di noi, come dice Steinem, le strategie per accedervi sfuggono al nostro campo di azione e controllo, a livello di autopercezione prima ancora che nei fatti.
«Le nostre ossessioni in materia d’amore non cominciano con la prima cotta», scrive bell hooks in Comunione. La ricerca femminile dell'amore, «Cominciano con quella prima ammissione che le femmine contano meno dei maschi, che, per quanto brave possiamo essere, agli occhi dell’universo patriarcale non lo saremo mai abbastanza».
Le donne e il corpo femminile, con le mestruazioni, le gravidanze, l'allattamento, sono ancora l'eccezione di cui tenere o non tenere conto e il punto non è una scomodità intrinseca del corpo femminile, ma il valore e il significato che la società gli attribuisce costruendogli ostacoli intorno. Quando il mondo è pensato per te, quando i grandi della storia e della letteratura sono uomini, i leader politici sono uomini, gli spazi pubblici, i farmaci, le misure di sicurezza, i bagni pubblici, sono pensati per gli uomini, cresci con un diverso orizzonte di possibilità.

Certo, a volte qualcuna ce la fa: «Una donna alla guida della cardiochirurgia di Olbia», scrivono i giornali, «Una donna alle Finanze». Non ha nome, è solo una donna che, tra gli uomini, ce l’ha fatta. È stata più brava delle altre, per questo ha preso un posto che non era destinato a lei. «È questa la prima lezione che viene impartita a una femmina alla scuola del pensiero e dei valori patriarcali», scrive ancora bell hooks, «Deve guadagnarsi l’amore. Non le spetta di diritto. Per essere amata deve essere brava. E quel brava è sempre definito da qualcun altro, qualcuno dall’esterno». Che valore attribuiamo al dirci da sole che siamo state brave? Che parametri usiamo per farlo? Se le conferme devono arrivare sempre dall’esterno, possiamo concedere a noi stesse solo l’obiettivo minimo della perfezione. O essere le più brave, o non essere niente.
«Sono la peggiore critica di me stessa», come in uno specchio, è l’altra faccia del «Le donne sono le peggiori nemiche delle donne» e viceversa. Qualche tempo fa ho intervistato Carolina Capria per il suo ultimo libro, Maestre, che parla del lavoro di cinque scrittrici che hanno creduto nella loro voce senza chiedere la legittimazione a nessuno, ma è anche un’ode al talento femminile e all'importanza di farci maestre le une delle altre coltivando l’ammirazione per le donne che abbiamo nelle nostre vite. «Nel momento in cui mi guardo e vedo la cellulite, quella non è Carolina che parla, quella è la società che parla», mi ha detto, «Non sappiamo parlarci con affetto perché abbiamo introiettato il modo in cui la società guarda alle donne». Incontro pochissime ragazze che parlano di loro stesse e del loro corpo anche solo con indulgenza: è un’abilità che a un certo punto avremmo potuto imparare e non abbiamo imparato?
Qualche tempo fa ho riletto Jane Eyre, che da ragazzina avevo liquidato come seriosa e troppo incline alla moralità. Da adulta mi è parso, al contrario, che la mente di Jane fosse un posto meraviglioso dove sostare, proprio per il suo modo di coltivarsi intorno una vita a misura di se stessa, scelta dopo scelta. Quando, ad esempio, Jane si allontana da Rochester non lo fa perché non lo ama più, ma perché rimanere con lui, dopo aver scoperto che è già sposato, è inconciliabile con il proprio modo di essere e, per lei, l’alleanza con se stessa è imprescindibile. Finito il libro avrei voluto continuare a sentirmi la sua voce nella testa: il suo modo di parlare di se stessa e a se stessa è un esercizio di fortezza, un puntellarsi sulle proprie forze senza aggrapparsi ad altro.
«Per Jane prendersi cura di se stessa è quasi una missione che coltiva tramite la solitudine», mi ha detto Carolina Capria, «la dimensione della solitudine è essenziale perché è lì che scopro chi sono e, una volta che ho scoperto chi sono, io mi prendo cura di me». A lungo, dopo essere andata a convivere, mi è mancato abitare da sola. Non perché la vita in coppia non mi piacesse, ma perché avere degli spazi vuoti dove espandermi mi aiutava a ricordarmi che era compito mio prendermi cura di come mi sentivo, senza scendere a patti con la versione di me vista dal di fuori, senza diluirmi nei pareri e nelle aspettative degli altri.
Posso ricostruire i sentieri della mia evoluzione personale sulla base delle case in cui ho vissuto, dei letti sfatti dove ho dormito, letto libri, mangiato; dei bollitori dove ho scaldato l’acqua e delle scrivanie dove ho studiato e appoggiato i vestiti la sera; delle stanze che ho abitato e che continuo ad abitare come luoghi della mente. È così anche per Rebecca Solnit che inizia il suo libro Ricordi della mia inesistenza parlando della casa in cui ha vissuto da studentessa, il luogo dove ha iniziato a cercare la propria voce e il proprio sguardo sul mondo, lottando contro la possibilità così tangibile di non-esistere. «La casa degli specchi», la chiama.
«In quel periodo cercavo di scomparire e di apparire», scrive, «cercavo certezze e di sentirmi qualcuno, e le due cose spesso entravano in contrasto. Mi guardavo allo specchio per vedere se potevo leggervi chi fossi e se ero adeguata e se tutte le cose che mi avevano detto su di me erano vere. Essere una giovane donna significa affrontare il proprio annichilimento in innumerevoli modi, cercare di sfuggirgli o di sfuggire alla consapevolezza di esso, o alle due cose insieme. “La morte di una bella donna è indiscutibilmente l'argomento più poetico che ci sia” ha scritto Edgar Allan Poe, che evidentemente non ha abbracciato il punto di vista delle donne che preferiscono vivere. Io cercavo di non diventare l'argomento poetico di nessuno e di non essere ammazzata; cercavo la mia poetica, senza mappe, senza guide, senza punti di riferimento. Sicuramente ce n'erano, ma non li avevo ancora identificati. Molte, forse la maggior parte delle giovani donne, devono combattere per trovare una poetica che celebri la loro sopravvivenza e non la loro sconfitta, per trovare forse anche una voce per farlo, o almeno un modo per sopravvivere in mezzo a un sistema di valori che prova piacere nella loro scomparsa o nel loro fallimento».
Secondo Solnit, allora come oggi, capire chi siamo in un mondo che erode i nostri diritti, silenzia le donne, le sminuisce, le riduce a corpi vuoti, le uccide, le chiude in una valigia e le butta in un burrone, è una forma di resistenza. «Tutte le cose peggiori che erano accadute alle altre donne in quanto donne potevano succedere a te in quanto donna», scrive, «Anche se non venivi uccisa, qualcosa in te lo era: la sensazione di libertà, di parità, di sicurezza».
Insomma, da un lato mi sembra impossibile non leggere in tutto questo una difficoltà ad essere donne in una società che sminuisce il femminile e non lo inserisce mai in una genealogia, in un sistema di valori da cui attingere, ma lo esclude. Dall’altro l'idea di una femminilità in costante crisi d’identità, intenta a rimuginare, dubitare, ripiegarsi su se stessa mi annoia e mi sembra un peso quando la riconosco in me. Sarebbe bello vivere e basta, qualunque cosa significhi, avendo fatto a patti con quello che si è.

È quello che mi sembra facciano solo certe signore sulla settantina, con le loro collane di perle e i capelli bianchi vaporosi, come quella che Margot Robbie incontra sulla panchina in Barbie. Quando, dopo la menopausa, come scrive Ursula Le Guin, queste donne sono sopravvissute anche all’ultimo cambio di fase, sono state tutto quello che un essere umano poteva essere e sono riuscite a ritrovarsi in ogni trasformazione. È una di queste signore che Le Guin sceglierebbe da mandare sul pianeta di Altair per fornire agli alieni il massimo esempio di essere umano: non un «giovane brillante, raffinato e talentuoso» e nemmeno una ragazza.
«Ecco che cosa farei: andrei ai grandi magazzini del posto, o al mercato, e sceglierei una donna anziana, sopra i sessanta; la troverei lì dietro il banco delle chincaglierie o la bancarella delle noci di Areca. Una che non abbia i capelli rossi, o biondi o neri splendenti, una che non abbia la pelle fresca di rugiada, una senza il segreto dell'eterna giovinezza. Magari potrebbe farvi vedere una foto di suo nipote che sta lavorando a Nairobi. Non saprà dirvi con precisione dove si trovi Nairobi, ma è comunque orgogliosissima di suo nipote. Lei si è data da fare tutta la vita con lavoretti insignificanti, come cucinare, pulire, crescere i figli, vendere alla gente ornamenti e suppellettili. Un tempo era una vergine, molto tempo fa, poi è diventata una donna potente, sessualmente fertile, e infine si è ritrovata a fare i conti con la menopausa. Ha dispensato la vita tante volte, e tante volte ha fronteggiato la morte: in egual misura. Ora sta affrontando ogni giorno in maniera un po' più chiara e un po' più da vicino il processo finale di nascita/morte. A volte sente un dolore atroce ai piedi. Non ha mai ricevuto un'istruzione pari alle sue capacità, il che è uno spreco assurdo e un crimine contro l'umanità, ma un crimine così comune che non può e non deve essere nascosto ad Altair. E comunque non è una tonta. Ha un buon corredo di assennatezza, arguzia, pazienza, astuzia esperienziale, che gli abitanti di Altair potrebbero o meno percepire come saggezza. Se sono creature più sagge di noi, ovviamente non possiamo sapere come la percepirebbero. Ma se in effetti sono più sagge, potrebbero essere in grado di percepire quel nucleo profondo della mente e del cuore che noi - solo sulla base di ipotesi e speranze - proclamiamo capace di umanità. Ad ogni modo, visto che si tratta di creature curiose e gentili, perché non offrirgli il meglio che abbiamo? Ecco il problema: la donna sarà molto restia a offrirsi come volontaria. “Che può fare una vecchia come me su Altair?”, direbbe. “Dovete mandare qualche scienziato, quelli sì che ci sanno parlare con questi buffi esserini verdi. Oppure dovrebbe andare Kissinger. E sennò uno sciamano?”. Sarebbe molto difficile spiegarle che vogliamo proprio lei perché solo una persona che ha sperimentato, accettato e agito l'intera condizione umana - la cui qualità essenziale è il Cambiamento - può rappresentare in maniera giusta l'umanità. “Io?”, direbbe, appena un po' ammiccante. “Ma non ho mai fatto niente”. Però non attacca. Sa benissimo, anche se non lo ammette, che Kissinger non è mai stato, né mai potrà andare dove è stata lei, e che scienziati e sciamani non hanno mai fatto quello che ha fatto lei. Forza, sali a bordo, nonnina».
3 emozioni del mese
Disperazione e glitter: ho visto al cinema The last showgirl e ho pianto singhiozzando assieme alla mia vicina di posto. Qui ho parlato del rumore che fanno i sogni infranti delle ragazze.
Cura di sé: mi sembra che si colleghi al discorso di oggi e qui c’è un pezzo vecchio ma ancora attuale che ho scritto su The Vision sul valore politico del prendersi cura di sé, soprattutto per le persone marginalizzate.
Un po’ di serenità, per favore: ho deciso che su Instagram guarderò solo profili di giardini, giardinaggio e composizione floreale.
come sempre: grazie per quello che racconti e come lo racconti 🌸
Ottimo. Ci siamo passate tutte e forse siamo ancora desiderose di piacere e poco consapevoli di noi.