«Spazio spazio, io voglio, tanto spazio/ per dolcissima muovermi ferita:/ voglio spazio per cantare crescere / errare e saltare il fosso / della divina sapienza. / Spazio datemi spazio / ch’io lanci un urlo inumano, / quell’urlo di silenzio negli anni / che ho toccato con mano».
Così scriveva Alda Merini. Succede che, fino a una certa età, le bambine ambiscano a sogni grandi e poi qualcosa in loro si spezzi: iniziano a dubitare della loro volontà, a preferirsi desiderate che desideranti, a farsi piccole e occupare poco spazio. Lo chiamano “ambition gap”: i dati ci dicono che, da adulte, le donne tendono a non farsi avanti per gli incarichi lavorativi, gli scatti di carriera o gli aumenti di stipendio, soffrono della sindrome dell’impostore, si ammutoliscono di fronte al mansplaining, si sminuiscono quasi per “buona educazione”.
Del resto dire «una donna ambiziosa» ha in sé qualcosa di negativo, perché porta il seme dell’egoismo. Nessuna ammette «sono ambiziosa», se non come provocazione, anche se sa di esserlo. Io credo di esserlo, ma non mi va tanto di dirlo. Del resto di esempi di donne ambiziose che sono state fatte a pezzi dalla stampa e dallo sdegno pubblico, svilite e dipinte come streghe arriviste, femme fatale o frigide dedite solo alla carriera, è piena la storia. Eppure spesso l’ambizione mi sembra importante, un processo di costruzione che ha a che fare con l’aver trovato, a fatica, la forza di dire no a certe cose e sì ad altre. Che cos’è se non ricavarsi uno spazio per essere e non dipendere, per sperimentare, scoprirsi brave magari, nutrirci di quello che ci piace? Per me vuol dire mettere da parte la paura tremenda di fallire per perseguire quello che mi dà soddisfazione.

Se l’ambizione è un’emozione, è un desiderio forte, mescolato alla determinazione, di vedersi migliorare costruendo la propria soggettività. Ci si aggrappa a una visione e si agisce, si fanno sacrifici, ci si interroga su cosa pensano gli altri di noi e noi di noi stesse, si cerca di bilanciare il «posso farcela» con il «non sono abbastanza brava». Sono acque insidiose da navigare e, in cambio, si possono ottenere tante cose: crescita personale, riconoscimento, soddisfazione per il lavoro fatto, nuove opportunità, nuovi legami, sentirsi parte di un cambiamento positivo, ma anche affermazione, denaro, potere, status sociale. Se l'ambizione è un’emozione, non può essere considerata giusta o sbagliata di per sé, dipende da come viene usata, a cosa la si indirizza, da quanto e come le lasciamo condizionare la nostra vita.
Si può ambire a scrivere un libro o ad aprire una società, a costruire una famiglia o a vincere una maratona: la cosa più difficile è capire a quali cose ambire perché siano in linea con noi stesse. C’è una frase molto bella nel libro Filosofia di Barbie dove l’autrice Silvia Grasso dice «Dopo aver cercato per molto tempo di essere uguale a un modello specifico, a un certo punto nella mia vita ho deciso che avrei scritto». Qualche giorno fa l’ho intervistata per un pezzo che uscirà su Cosmopolitan e le ho detto che potrei stampare quella frase come mia bio: mi ricorda il lavoro di cesello che abbiamo fatto e dobbiamo fare per togliere il superfluo e finalmente vedere apparire la parte di noi in cui ci riconosciamo.
E che succede, poi, quando troviamo la nostra voce? Nel suo libro Mostri, Claire Dederer a un certo punto parla del suo dilemma tra l’ambizione di essere una brava scrittrice e quella di essere una brava madre. Leggerlo mi ha destabilizzata, sapendo che è quello che proviamo in tante di fronte alla scelta se avere figli: la paura che equivalga a perdere noi stesse, quando a malapena ci sembrava di esserci trovate. «Per scrivere un libro servono molti piccoli atti di egoismo», scrive Dederer, «L'egoismo di chiudere la porta in faccia alla tua famiglia. L'egoismo di ignorare la carrozzina nella sala d'ingresso. (....) Il semplice egoismo di dire quello che hai da dire». «Dovrei aspirare a un egoismo più grande? Ogni scrittrice-madre che conosco si è fatta la stessa domanda. Non che lo dicano ad alta voce, ma sento che lo pensano, ed è un pensiero quasi assordante. Un'identità elimina fatalmente l'altra? Lavorare ti rende una mamma meno brava? È la domanda che ti fai continuamente. Ma anche: la maternità ti sta rendendo una scrittrice meno brava? E questa è una domanda un po' più scomoda».
Non dico che essere egoiste sia una cosa lodevole (e infatti Dederer si chiede «Io sono un mostro?»), ma il punto è che alle donne non è concesso esserlo mai. Le ambizioni che ci vengono proposte sono rivolte ad altro da noi stesse: piacere agli uomini, avere un ragazzo, poi un marito, farsi scegliere, essere un certo tipo di ragazza per bene, assecondare gli schemi previsti da altri, fare dei figli. E invece, come scriveva Virginia Woolf, per poter scrivere, serve una stanza tutta per sé. Solo così, con un lavoro e dei soldi a disposizione, si potrà chiudere il mondo fuori e smettere di fungere da «specchi magici e deliziosi» per gli uomini.

Ma non basta: dobbiamo lottare con i fantasmi dei ruoli che ci sono stati imposti, dobbiamo «uccidere l’angelo del focolare», quell’ideale di donna, per usare le parole di Woolf, «infinitamente comprensiva», «assolutamente altruista» che «eccede nelle difficili arti del vivere familiare», «si sacrifica quotidianamente» e «non ha mai un pensiero, mai un desiderio per sé». Senza tempo ed energia, le ambizioni si perdono. Forse oggi è diverso, ma per tante delle nostre mamme e nonne è andata così: chissà che ambizioni e inclinazioni si sono smarrite come calzini spaiati tra le lavatrici, la lista della spesa, ricordare al marito di passare a prendere il pane, preparare pranzo e cena, comprare i regali di Natale per tutti, apparecchiare e sparecchiare senza che il marito muovesse un dito, lavargli e stirargli le camicie, fargli le valigie per i viaggi di lavoro, ricordargli di chiamare sua madre.
L’ambizione negata delle donne è stata ed è una questione femminista. Forse non tutti ricordano che, fino al 1963, le donne in Italia non potevano diventare magistrate ed era lecito licenziarle per matrimonio e gravidanza in modo da «proteggere la funzione familiare della donna». Le femministe della cosiddetta Seconda Ondata negli anni 70 si sono battute, tra le altre cose, per l’accesso delle donne al mondo professionale, per fare uscire dai sobborghi la casalinghe che, come racconta Betty Friedan ne La Mistica della Femminilità, erano spesso depresse e dipendenti da alcol e psicofarmaci. Soffrivano del «problema senza nome», erano mogli e madri prima che donne, avevano riposto il loro valore negli altri e, così facendo, avevano perduto loro stesse e il significato dei loro giorni.
Poi le cose sono cambiate, molte battaglie sono state vinte e, anzi, a partire dagli anni 80 il modello della donna in carriera si è affermato dando origine al mito della donna che può avere tutto. Per il femminismo liberale e il cosiddetto "choice feminism”, essere femministe equivale al «puoi essere ciò che vuoi! Credici!», all’idea che basti «pensarti libera» e lavorare sodo per raggiungere tutti i tuoi sogni, senza guardare alle altre donne, senza lottare per un cambiamento strutturale. Resta il fatto che possiamo, ad esempio, raccontarci che è fattibile avere una carriera e dei figli, ma senza gli asili nido e senza congedo di paternità obbligatorio il prezzo lo pagheremo noi comunque. Il fatto che alcune donne arrivino in alto o abbiano una vita facile, spesso perché privilegiate e con tanti aiuti, non rende la società migliore specie se, una volta in alto, nulla viene fatto per cambiare le cose per tutte le altre.
Ecco perché c’è un altro motivo per cui l’ambizione è una questione femminista. In un modo o nell’altro, l’ambizione ha a che fare con il potere e da qui sorgono molte domande che, io credo, toccano il cuore del femminismo. È necessario ottenere del potere per poi cambiare le cose in senso più equo? Se rifiutiamo il potere possiamo ugualmente cambiare la società in senso femminista? Se abbracciamo il potere, come facciamo a non finirne fagocitate dimenticando il progetto femminista? Esiste un potere che sia creativo e fertile e non implichi schiacciare gli altri mentre raggiungiamo le nostre ambizioni? Come possiamo imparare a ridistribuire il potere e a coltivare l’orizzontalità? Cambiare la società implica chiederci se è possibile usare il potere in modi nuovi, imparando a riconoscere gli schemi patriarcali con cui analizziamo il mondo, come le gerarchie o il pensiero binario e dicotomico, svolgendo un’opera di immaginazione e sperimentazione. Per ora, mi sembra che a contatto con il potere ancora non abbiamo gli anticorpi.
Ci ho pensato molto dopo il caso di Leonardo Caffo, filosofo accusato di violenza dalla ex compagna e ugualmente invitato a partecipare alla fiera della piccola e media editoria Più Libri Più Liberi da Chiara Valerio, autrice cara amica di Michela Murgia considerata da molti un’intellettuale femminista. La fiera, tra l’altro, era stata dedicata da Valerio alla memoria di Giulia Cecchettin creando una situazione paradossale per cui un presunto abuser avrebbe presentato il suo libro a una fiera dedicata a una vittima di femminicidio per poi venire, com’è stato, condannato in primo grado a 4 anni pochi giorni dopo. Caffo ha ritirato la partecipazione, ma tanti intellettuali di sinistra, considerati vicini al femminismo, hanno rilasciato dichiarazioni a sostegno della scelta di Valerio, di Caffo stesso, persino frasi di scherno e critica verso chi si è opposto, ha protestato e boicottato la fiera. Nessuno si è scusato, nessuno ha spiegato.
Che cosa porta a dire “sorella io ti credo” solo finché l’accusato non fa parte del proprio entourage? Come si arriva a mescolare amicizia e scambio di opportunità e visibilità? Quando si supera il limite per cui non si è più capaci di sacrificare lo status quo che ci favorisce? Vorrei saperlo, vorrei conoscere tutti i passaggi di potere e ambizione perché so che ci riguarda tutte.
Mi chiedo quanta volontà di autoaffermazione mettiamo nelle nostre pratiche femministe. Saremmo in grado di parlarne, di andare a sviscerare le contraddizioni che proviamo per esporle alla luce del sole e farle diventare terreno di rielaborazione comune? Me lo chiedo spesso riguardo alle dinamiche femministe sui social, e non perché i social in sé siano un problema (sono un mezzo, spesso molto utile), ma perché mi sembrano una buona palestra per indagare questi temi. Riusciamo a distinguere la ricerca di validazione dall’attivismo? Cosa genera in noi vedere che ciò che facciamo viene apprezzato, specie in un mondo dove, se hai tanti follower ti fanno scrivere libri, moderare panel, banalmente ti ascoltano? Che fare, cosa pensare se un post pubblicato dopo un femminicidio diventa virale e ti fa duplicare i follower?
È inutile negare che più seguito equivalga a più credibilità, che il seguito sia legato anche a chi conosci o non conosci, esattamente come fuori dai social. Mi pare che tante persone, tante attiviste, provino a spezzare queste dinamiche, ma vorrei che si parlasse di più di come fare, a livello pratico, nel femminismo di tutti i giorni, in modo da rintracciare il germe del potere patriarcale lì dove è più difficile accettare che esista: nel nostro essere femministe.
Una risposta si trova indubbiamente nel lavoro e nell’esempio di Sarah Ahmed che, non solo nel suo ultimo libro Manuale della femminista guastafeste fornisce un vero e proprio toolkit per rompere gli schemi patriarcali, ma nel 2016 ha anche rinunciato alla sua cattedra universitaria per coerenza verso i suoi valori femministi. Anche Ahmed era stata invitata a Roma a Più Libri Più Liberi e si è rifiutata di partecipare. «Per me», ha scritto in un comunicato, «vivere una vita femminista - ed essere una femminista guastafeste - significa opporsi, e parlare contro tutte le forme di violenza, inclusa quella istituzionale, come anche quella sessuale. Dobbiamo farlo anche (o specialmente) quando questo significa rinunciare a delle opportunità. Noi riconosciamo i nostri sforzi femministi quando diventano per noi degli ostacoli!». Anche degli ostacoli alle nostre ambizioni, aggiungerei.

Che cosa resta, quindi, di questo «Spazio spazio», «spazio per cantare crescere»? Oggi voglio tenere come risposta questo discorso che la scrittrice Ursula Le Guin fece alle ragazze del Mills College in California nel 1983. Lo trovate completo qui, è molto bello.
«Se invece di parlare dell'autorità, del potere, cosa accadrebbe se io parlassi ora in pubblico come una semplice donna? Cosa accadrebbe se io dicessi che innanzitutto spero per voi che se – solo se – volete dei figli, io spero che voi li abbiate. Non orde di figli. Giusto un paio, è più che sufficiente. E spero che siano belli, i vostri figli. Che voi e loro abbiate abbastanza da mangiare e un posto caldo e pulito dove stare, e di avere amici, e un lavoro che vi piaccia. Bene, è per questo che voi siete venute all'università? È tutto qui? E il successo? Il successo è il fallimento di qualcun altro. Il successo è il Sogno americano che noi stiamo continuando a sognare perché la maggior parte delle persone in molti luoghi, compresi trenta milioni di americani, vive completamente sveglia nella terribile realtà della miseria. No, io non vi auguro il successo. Non voglio neanche parlarne. Voglio piuttosto parlare dell'insuccesso. Perché voi siete esseri umani che andranno incontro al fallimento. Vi imbatterete in delusioni, ingiustizie, tradimenti, perdite irreparabili. Scoprirete di essere fragili laddove vi credevate forti. Lavorerete per possedere oggetti e poi scoprirete che sono loro a possedervi. Vi troverete – come credo che vi sia già capitato – in luoghi bui, sole e con addosso la paura».
(...)
«Quindi ciò che vi auguro è di vivere qui non come prigioniere, vergognandovi di essere donne, schiave accondiscendenti di un sistema sociale psicopatico, ma come native. Vi auguro di vivere come a casa, di avere una dimora vostra, di essere padrone di voi stesse, con una stanza tutta per voi. Di svolgere un lavoro, quale che sia il vostro talento, l'arte, la scienza o dirigere un'azienda o spazzare sotto i letti, e quando vi diranno che il vostro è un lavoro di seconda categoria perché è una donna a farlo, spero che rispondiate loro di andare all'inferno e che mentre ci vanno vi diano una giusta paga per le ore di fatica. Vi auguro di vivere senza il bisogno di dominare o di essere dominate. Vi auguro di non essere mai vittime, ma vi auguro anche di non esercitare alcun potere su altre persone. E quando fallirete e sarete sconfitte, nel dolore e nel buio, ecco allora vi auguro di ricordare che l'oscurità è il vostro paese, dove vivete, in cui non si combattono né si vincono guerre, bensì dove risiede il futuro».
3 Emozioni del mese
Dolore: nella scorsa newsletter ho parlato di come il femminismo tenga traccia del dolore delle donne. Su Domani ho intervistato Catherine D’Ignazio autrice del bellissmo Counting Feminicide: Data Feminism in Action. Trovate il pezzo qui.
Meraviglia: Ho intervistato diverse mamme di bambini intersex che mi hanno raccontato la loro esperienza, sono parole meravigliose.
Esaurimento pre-natalizio: se qualcuno mi vuole regalare questo porta fiammiferi (ne ho trovati di bellissimi anche su Etsy) o questi porta candele!
Una newsletter sempre interessantissima ❤️